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"Se qualcuno riesce a convincermi e dimostrarmi che la mia opinione o il mio comportamento non sono quelli giusti, li cambierò con gioia. Io, infatti, cerco la verità, che non danneggia nessuno. Al contrario danneggia se stesso chi persiste nel proprio errore e nella propria ignoranza." (Marco Aurelio, VI, 21) "Lo studente accorto ascolta volentieri chiunque; legge tutto, e non disprezza alcun libro, né presona, né dottrina. Cerca indifferentemente presso tutti ciò che vede mancare a se, e non considera la portata del suo sapere, ma quella della sua ignoranza [...]. Supererai chiunque in saggezza, se accetti di imparare da chiunque: coloro che ricevono da tutti sono più ricchi di tutti..." (Ugo da S.Vittore, Didascalion) "La lettura rende l'uomo completo, il dialogo lo rende pronto, la scrittura preciso." (Francesco Bacone) ...l'intelligenza non si perde nell'analisi, ma si esprime nella sintesi... ...nel territorio digitale non serve imporsi, ma bisogna esporsi... ...arrivare alla pace del cuore... mostrami Signore la tua via, perché nella verità io cammini, donaci un cuore semplice... insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore...inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te, Domine... "La verità si nasconde nelle pieghe della storia" (Pascal). Chi dimentica il passato, è costretto a riviverlo (G. Santaiana).

lunedì 16 agosto 2010

Ricordare per non dimenticare - Controstoria dell'unità d'Italia 12

L'unità d'Italia e Pio IX
di Giovanni Sale s. j.

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato re d'Italia «per la grazia di Dio e la volontà della Nazione» (In tale data la Gazzetta Ufficiale del Regno pubblicava la legge che proclamava «Vittorio Emanuele II per la grazia di Dio e la volontà della Nazione, Re d'Italia». Tale definizione fu oggetto di una lunga discussione alla Camera dei deputati; infatti 50 deputati radicali non volevano che si facesse riferimento alla «grazia di Dio» nella proclamazione regia. Essi ritenevano che tale affermazione fosse un residuo dell'epoca feudale; uno di loro affermò di non conoscere «altra provvidenza che i cannoni rigati e le baionette». La formula fu poi approvata dalla Camera con 174 voti favorevoli e 58 contrari. Cfr «Cronaca Contemporanea», in Civ. Catt., serie IV, voI. 10, 1861, 366). Il giorno dopo Pio IX pronunciava l'allocuzione, preparata già da tempo, Iamdudum cernimus con la quale affermava che il Papa non poteva in nessun modo consentire alla «vandalica spoliazione» del suo Stato, facendo con ciò riferimento alle annessioni delle Legazioni e dei territori recentemente «conquistati» delle Marche e dell'Umbria: «Essi vorrebbero - affermava il Pontefice - che dichiarassimo formalmente di cedere in libera proprietà degli usurpatori le province del Nostro Stato Pontificio [...]; vorrebbero che questa Apostolica Sede sancisca che la cosa ingiustamente e violentemente rubata può tranquillamente....
e onestamente possedersi dall'iniquo aggressore; e così si stabilisca il falso principio che la fortunata ingiustizia del fatto non reca alcun danno alla santità del diritto» («Allocuzione di N. S. Papa Pio IX nel Concistoro Segreto del 18 marzo 1861», ivi, 12. Diomede Pantaleoni in una lettera del 19 marzo 1861 all'amico Cavour, trattando dell'allocuzione pontificia, così scriveva: «Finalmente il Papa ha bruciato i suoi vascelli e si è chiuso in ritirata [...]. Finita l'allocuzione il Papa ha aggiunto in italiano altro ancora per i cardinali [...], egli era concitatissimo ed in tal stato di passione e d'agitazione che gliene cadde lo zucchetto di terra»: La Questione romana negli anni 1860-61. Carteggio del conte di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia, o. Vimercati, voI. Il, Bologna, Commissione Reale Editrice, 1929, 69). Con questa stessa allocuzione il Pontefice condannava in tono grave e concitato non soltanto le frequenti violazioni dei diritti della Chiesa, ma anche la «laicizzazione forzata» posta in essere dai nuovi occupanti, come la lotta intrapresa contro gli ordini religiosi, le opere pie, nonché contro i vescovi, spesso costretti ad abbandonare le loro diocesi. «Quante Diocesi in Italia - denunciava a tale riguardo Pio IX - sono, per frapposti impedimenti, orbate de' loro Vescovi, plaudendo i patroni della moderna civiltà che lasciano tanti popoli cristiani senza pastori e s'impadroniscono dei loro beni per convertirli a mali usi! Quanti Vescovi in esilio! Quanti apostoli che parlano a nome non di Dio, ma di Satana» («Allocuzione di N. S. Papa Pio IX nel Concistoro Segreto del 18 marzo 1861», cit.,13). Il  segretario di Stato, card. Giacomo Antonelli, subito dopo il voto delle Camere torinesi che attribuiva a Vittorio Emanuele II il titolo di re d'Italia, inviò una Nota di protesta ai rappresentanti delle potenze straniere accreditate presso il Papa. «Un re cattolico - recitava la Nota del 15 aprile 1861 - mettendo in non cale ogni principio religioso, calpestando ogni legge, dopo avere spogliato a poco a poco l'augusto Capo della Chiesa cattolica della più ampia e florida parte dei suoi possedimenti, assume oggidì il titolo di Re d'Italia. Con ciò egli vuole suggellare le già compiute sacrileghe usurpazioni, che il suo Governo ha già manifestato di condurre a compimento, alle spese del patrimonio di San Pietro» («Cronaca Contemporanea», ivi, 32). Affermava poi perentoriamente che mai il Papa avrebbe riconosciuto la legittimità di tale titolo, perché esso «lede la giustizia e la sacra proprietà della Chiesa». La Nota nei giorni seguenti fu pubblicata nei maggiori quotidiani europei, e quindi anche a Torino, e commentata in vario modo, in relazione alla tendenza legittimista o filo-liberale dei Governi in carica.

Cavour e Montalembert
Qualche giorno dopo l'allocuzione pontificia, in occasione della discussione alle Camere del cosiddetto Ordine del giorno Boncompagni, che proponeva di dichiarare Roma capitale d'Italia, il capo del Governo, conte di Cavour, per non perdere il sostegno dei liberali moderati, di sentimenti cattolici, e anche per rispondere alla dure parole del Papa, presentò, sia alla Camera sia al Senato regio (nelle sedute del 25 e del 27 marzo), il programma che il suo Governo avrebbe seguito nei confronti della Santa Sede e in materia religiosa. Cavour affermò che il potere temporale dei Papi, nel nuovo ordine europeo e italiano, era diventato ormai anacronistico e non costituiva più un' efficace garanzia di indipendenza e di libertà per il Pontefice, il quale per assicurare l'incolumità del proprio Stato avrebbe dovuto affidarsi, come di fatto era avvenuto negli ultimi tempi, a «truppe straniere e dipendere da Stati secolari» come, ad esempio, la Francia. La libertà della Chiesa, sosteneva lo statista piemontese, nella nuova Italia poteva essere assicurata soltanto da un' effettiva separazione tra la Chiesa e lo Stato, secondo il principio «libera Chiesa in libero Stato», coniato già da decenni dai cattolici francesi e, in particolare, dal conte Charles de Montalembert, per difendere la libertà della Chiesa dalle indebite ingerenze dello Stato secolare (Cfr R. ROMEO,Vita di Cavour, Roma - Bari, Laterza, 1994,514). Persuadere i cattolici d'Europa, disse Cavour, che l'unione di Roma al resto dell'Italia non sarà causa di oppressione per la Chiesa, «persuaderli anzi che l'indipendenza di questa ne crescerà, questo è il modo per giungere ad un accordo con la Francia, naturale rappresentante della società cattolica in questo gran piano». Una volta giunti a Roma - continuava - «grideremo la separazione fra la Chiesa e lo Stato, e la libertà della Chiesa. E dopo tal fatto [...] la grande pluralità dei cattolici d'Europa ci approverà, e rovescerà su cui tocca la colpa della lotta, con che la Corte di Roma avrà provocato la Nazione» (Moniteur, 28 marzo 1861).. L'ordine del giorno Boncompagni fu poi approvato all'unanimità dalla Camera subalpina.
Non si conoscono commenti del Pontefice alle dichiarazioni del primo ministro piemontese; egli però già da tempo (cioè da quando nel 1855 si era espresso in modo critico sul Concordato stipulato tra la Santa Sede e l'Austria) lo annoverava tra i «cattivi cattolici», sul quale, disse, «pesa sempre adirata la mano di Dio» (G. MARTINA, Pio IX e Leopoldo II, Roma, Pont. Università Gregoriana, 1967,504); in un' altra occasione lo aveva addirittura apostrofato, «antipapa e quasi nemico di Gesù Cristo» (Ivi. Dagli uomini del suo tempo Cavour fu più stimato (o temuto) per le sue doti di uomo di governo, che amato. La storia del Risorgimento ha creato i suoi eroi (Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II), ma il conte di Cavour non è tra di essi. Di fatto egli fu sempre considerato come un italiano sui generis a motivo della sua formazione culturale «europea» e anche perché per tutta la vita preferì parlare il francese anziché la lingua «nazionale», Su Cavour si veda la monumentale opera di R. ROMEO, Cavour e i suoi tempi, 3 voll., Bari, Laterza, 1984. Tra gli studi recenti ricordiamo A. VIARENGO, Cavour, Roma, Salerno, 2010). Inoltre, in base al Breve del 26 marzo 1860, su tutti coloro che avevano (o avrebbero) cooperato alla spogliazione dello Stato della Chiesa veniva comminata la più severa sanzione ecclesiastica, cioè la scomunica maggiore. Essa però non era nominale - in particolare non citava né Vittorio Emanuele II né Cavour - per cui fu interpretata dai vari cappellani privati con una certa larghezza. Pio IX, al contrario, in alcune circostanze tenne un atteggiamento piuttosto duro nei confronti delle persone implicate «nella spogliazione», chiedendo per l'assoluzione dalla scomunica almeno una ritrattazione privata (È quanto avvenne per Cavour, che morì a 51 anni il6 giugno 1861. Egli già durante la malattia si era assicurato in punto di morte i conforti religiosi, che di fatto gli furono amministrati dal cappuccino p. Giacomo da Poirino, che non pretese dal morente nessuna ritrattazione. Pio IX, avvertito della cosa, chiamò a Roma il cappuccino, il quale si rifiutò di ammettere di aver agito contro le leggi della Chiesa. Il Papa lo privò della facoltà di confessare e lo sospese dalle funzioni parrocchiali. Cfr P. PIRRI, Pio IX e Vittorio Emanuele II. Carteggio, vol. II, Roma, Pont. Università Gregoriana, 1951, 392-405).
I discorsi pronunciati alla Camera e al Senato da Cavour sulla questione religiosa furono diversamente valutati; mons. Pier Francesco Meglia, incaricato di nunziatura a Parigi, ad esempio, ne ammirò la franchezza, a differenza, disse, della politica ambigua e falsa tenuta su tale questione dal Governo francese. «Quello che sorprende nei discorsi del presidente del Consiglio - scrisse in una lettera del 30 marzo 1861 inviata al card. Giacomo Antonelli - è la soluzione decisiva, proposta senza ambagi, con termini chiari, e di maniera a far credere che l'opera dello scioglimento [cioè della separazione tra Stato e Chiesa] non sia tanto lontana; e siccome tali parole, lungi dall'essere qui contraddette, sono invece inserite nel Moniteur, esse portano a pensare che i due Governi sono perfettamente d'accordo sul piano a seguire e non attendono che il momento opportuno per metterlo in esecuzione» (Ivi, vol. I, 370). Di tono ben diverso, invece, sono le reazioni alle parole del Conte di Cavour di noti esponenti del cosiddetto cattolicesimo liberale europeo, come quelle del conte Charles de Montalembert: uomo politico e intellettuale cattolico molto stimato sia in Francia sia in Italia e più volte citato da Cavour come il geniale ideatore del celebre principio sopra ricordato (Di Montalembert si ricordano le celebri battaglie in difesa della libertà della Chiesa e, in particolare, quella per la libertà di insegnamento, che nel 1850 ispirò la legge Falleaux sulla scuola in Francia. Cfr R. AUBERT, «Il pontificato di Pio IX (1846-78)», in Storia della Chiesa, vol. XXI, Torino, Saie, 1964, 89s.). Significativo dal punto di vista polemico - letterario è uno scritto redatto «a caldo» da Montalembert in risposta agli accennati discorsi di Cavour. Esso fu pubblicato in italiano sulla Civiltà Cattolica («Seconda lettera del Sig. conte di Montalembert al Sig. conte di Cavour», in Civ. Catt., serie IV, vol. 10, 1861,384-434. Lo scritto di Montalembert reca la data del 12 aprile 1861), la quale da tempo era impegnata nella difesa intransigente del potere temporale, della libertà del Papa e dei diritti imprescrittibili della Chiesa, contro la «micidiale peste liberale», figlia della riforma protestante e della Rivoluzione Francese, e contro tutti i «sovvertitori dell'ordine costituito». il fatto che la rivista pubblicasse un articolo così importante, redatto da un autore non gesuita (la rivista per statuto pontificio era - ed è – scritta da gesuiti), anzi laico, ci dice tutta la gravità della situazione e quanto fosse importante per la Santa Sede controbattere le dichiarazioni di Cavour con determinazione, utilizzando le migliori intelligenze presenti in campo cattolico, anche quelle non appartenenti al fronte della cultura intransigente.
Rispondendo a Cavour che nei suoi discorsi chiamava a raccolta tutti i cattolici liberali, per difendere la libertà della Chiesa contro il dispotismo dei legittimisti, Montalembert scrisse: «Ora eccomi qua, uno di quei cattolici leali che voi invocate. Sono trenta anni ch'io difendo quell'indipendenza della Chiesa, di che voi parlate oggi per la prima volta. Laonde a doppio titolo, in nome di tutti i milioni di cattolici, il cui suffragio invocate, oso rispondere: no, la nostra adesione non l'avete. Fidatevi di me, voi ci dite, ed io vi rispondo un franchissimo no. Vi vantate di ottenere presto o tardi la cooperazione dell'opinione pubblica, ed io affermo che non l'avrete giammai. Vi appellate alla pluralità dei cattolici; ed io pretendo che tra i veri cattolici, i quali soli contano, soli danno forza coll'adesione in materia religiosa, nessuno, né prete né laico, non istarà per voi. La mia risposta si riduce dunque a tre parole: No! Giammai! Nessuno» (Ivi, 387). Già dalle prime pagine dello scritto, il conte francese prendeva le distanze dal punto di vista ideologico, dalle posizioni cavouriane e affermava che il suo pensiero liberale era altra cosa perché alimentato dal sentimento di giustizia e dal rispetto per la libertà dei popoli: «Il vostro liberalismo - scriveva Montalembert - nulla ha che fare col mio: e per conseguente dolce mi è il credere [...] che il mio liberalismo più che mai perseverante e convinto, nulla ha che fare con codesto vostro, sì giustamente vituperato dal Sommo Pontefice». Dopo di che egli metteva sotto accusa la politica portata avanti dal Governo piemontese contro il Papa: «In nome della giustizia - continuava -, la giustizia è violata; in nome della libertà, è strozzata la libertà: se Vittorio Emanuele spedisce il Cialdini nelle Marche, ciò si fa per assicurare l'ordine morale; se il Billault per tre mesi interdice la pubblicazione alle pastorali dei Vescovi, ciò si fa per rispetto verso la Religione: pel bene della Chiesa il Piemonte rapisce i beni della Chiesa; per effetto d'umanità gli Stati Uniti del Sud conservano la schiavitù; per amore dell'ordine si scannano le donne di Varsavia; per salvare i Maroniti la Turchia vuole allontanati i francesi dalla Siria! Sappiasi dunque sotto il velame delle parole scoprire le intenzioni, sappiasi alzare la pelle dell'agnello per nudare il lupo» (Ivi, 388). «Voi pretendete - continuava Montalembert - dimostrare con evidenza ai più increduli la schiettezza della vostra proposta. Dite che il vostro sistema vuole la libertà in ogni cosa, la libertà compiuta nei rispetti fra la Chiesa e lo Stato. Promettete al Papa [...] la riverenza e la libertà, con l'unico patto che prima lo dobbiate spogliare del suo dominio temporale. Ma in che modo avete voi trattato i Vescovi suoi fratelli [...], e che già vi sono sudditi, come pretendete che egli diventi?». Avete cacciato – scriveva - dalle loro sedi gli arcivescovi di Torino, Cagliari, Pisa, Napoli senza minimamente curarvi del bene spirituale del popolo cristiano: «Sono questi i pegni che debbono rassicurare i fedeli del mondo intero circa la sorte futura del padre loro, e il Papa stesso circa la futura libertà del suo ministero? Voi avevate monasteri sopravvissuti alla tempesta delle rivoluzioni, e che cosa sono divenuti? Da per tutto io li veggo spogliati, profanati, confiscati» (Ivi, 396), lo stesso, continuava, vale per i giornali cattolici, ovunque confiscati, per le associazioni cattoliche ovunque disciolte. Il contenuto apertamente e volutamente apologetico dello scritto a volte, a nostro avviso, nel riportare e commentare i fatti pecca di unilateralismo, intaccando così la verità del confronto. È vero, come sostenevano Montalembert e tutta la stampa intransigente, che le leggi di laicizzazione piemontesi, con il loro carico di durezze, furono applicate su tutto il territorio nazionale, senza alcuna attenzione alla diversità delle realtà locali, allo scopo di limitare l'influsso che la Chiesa esercitava sulla realtà sociale occupando «spazi pubblici» - come la scuola, l'ordinamento della famiglia, l'assistenza sanitaria e così via - che il nuovo Stato liberale intendeva rivendicare a sé; va però anche ricordato che l'applicazione del «sistema delle libertà» previste dallo Statuto albertino garantì a tutti gli italiani alcune libertà fondamentali della persona, non riconosciute negli Stati preunitari, come ad esempio, la libertà di pensiero, di associazione, di religione e la tanto vituperata libertà di stampa. Va inoltre ricordato che La Civiltà Cattolica - rivista redatta in italiano e destinata ad essere letta da «tutti i cattolici italiani» - nonostante pubblicasse articoli molto critici nei confronti dell'unità d'Italia e della politica piemontese, continuò le sue pubblicazioni e non trovò nella sua divulgazione nella nuova Italia maggiori ostacoli di quanto non ne ebbe negli anni precedenti nel regno dei Borbone (Cfr G. SALE, «"La Civiltà Cattolica" nei suoi primi anni di vita» in Civ. Catt. 1999, I, 544-557).

Pio IX e la proposta filo-guelfa di Napoleone III
Eppure durante il processo di unificazione nazionale, soprattutto dopo la seconda guerra d'indipendenza, ci furono momenti in cui il contrasto tra piemontesi da un lato e Santa Sede dall'altro sembrava in qualche modo superabile e in ogni caso contenuto. Infatti l'Imperatore dei francesi, Napoleone III, che aveva assunto l'impegno di difendere con le armi la persona del Papa e ciò che rimaneva del piccolo Stato della Chiesa, il 14 luglio 1859, dopo che le Legazioni si erano sganciate dallo Stato pontificio, propose a PIO IX di accettare la presidenza onoraria dell'erigenda confederazione italiana, mettendosi quindi a capo di un processo di unificazione nazionale, che in quel momento riguardava soltanto la parte centro-settentrionale dell'Italia. Tale processo, dopo il fallimento del progetto neo-guelfo, all'inizio timidamente appoggiato dal neo-eletto Pontefice, di un'unificazione che trovasse nel cattolicesimo nazionale e nelle libertà statutarie l'elemento di coagulo e di propulsione, dal 1848 era passato sotto il controllo del Piemonte; questo a differenza degli altri Stati italiani aveva conservato, dopo i moti rivoluzionari del 1848-49, lo Statuto e intendeva uniformare la propria legislazione al «moderno sistema delle libertà», come si faceva nei maggiori Stati liberali europei. In tal modo e non senza voluta premeditazione, avvenne la saldatura definitiva tra movimento nazionale e principi costituzionali «e la disgregazione del principio di legittimità su cui si fondava l'ordine istituzionale degli Stati italiani» (F. TRANIELLO, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, il Mulino, 1997, 82). Infatti, sottolinea Francesco Traniello, l'aspetto peculiare che contraddistingue il risorgimento italiano da altri movimenti nazionali, come, ad esempio, quello tedesco, fu la diretta connessione realizzatasi in esso tra il principio di nazionalità (comune sia a molti guelfi sia a liberali), l'unitarismo politico territoriale (anche se limitato, come avrebbero voluto i moderati tra cui Cavour, alla parte centro-settentrionale dell'Italia) e un ordinamento statutario rappresentativo, che limitasse il dispotismo dei sovrani e assicurasse le libertà fondamentali della persona. In realtà, Napoleone III, che su tale materia sostanzialmente tenne fede agli accordi assunti con Cavour nel luglio 1858 a Plombières, fece il possibile, seppure con atteggiamento fluttuante, per limitare la leadership del piccolo Stato piemontese sul movimento di unificazione nazionale (Secondo gli accordi [segreti] di Plombières tra Napoleone III [che intendeva modificare in favore della Francia l'assetto europeo imposto dal Congresso di Vienna] e Cavour [che chiedeva l'alleanza dei francesi per combattere l'Austria nel Lombardo - Veneto], il nuovo assetto dell'Italia prevedeva: l'assegnazione della parte centro-settentrionale della penisola ai Savoia, mentre Roma e i territori limitrofi sarebbero rimasti al Papa. La Toscana, le Marche e l'Umbria avrebbero dovuto costituire uno Stato a sé, mentre il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto inalterato. I quattro principati italiani - che avrebbero avuto ordinamenti costituzionali - avrebbero formato una confederazione la cui presidenza onoraria sarebbe stata offerta al Papa. Come compenso il Piemonte avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e Nizza. Cfr A. Scirocco, In difesa del Risorgimento, Bologna, i! Mulino, 1998, 128). Infatti, cacciati con le armi franco-piemontesi gli austriaci dalla Lombardia e liberatesi (con «rivoluzioni spontanee») le regioni dell'Italia centrale dal «dispotismo dei sovrani territoriali» (cioè il Granduca di Toscana, i duchi di Parma e Modena e il Papa), si apriva la possibilità per il piccolo «principato» piemontese di diventare uno Stato nazionale di tutto rispetto, facente parte a pieno titolo - soprattutto dopo la sua partecipazione nel 1855 alla guerra di Crimea contro la Russia - al concerto delle grandi potenze europee. E ciò prima ancora che Garibaldi nel maggio del 1860 sbarcasse in Sicilia, coronando così il sogno dei radicali e dei mazziniani di un'Italia interamente unificata anche sotto il profilo politico-istituzionale. Dal canto suo Cavour, che in nessun caso avrebbe permesso ad altri, né al Papa né al mazziniano Garibaldi, di prendere in mano le fila del movimento di unificazione nazionale, fece di tutto per far naufragare l'iniziativa promossa dall'Imperatore dei francesi, ponendo alla Santa Sede condizioni molto onerose e in ogni caso impossibili da accettare. Pio IX, da parte sua, accolse la proposta di Napoleone III con grande entusiasmo e con non poca ingenuità; egli si mostrò disposto ad accettare la presidenza onoraria della confederazione promettendo anche di essere pronto a introdurre nel suo Stato le riforme compatibili con la sua nuova carica, ma subordinava ogni cosa alla restituzione delle Legazioni e al ristabilimento dell'ordine sconvolto dai radicali. Nella prima stesura della lettera all'Imperatore dei francesi il Papa, mentre, da un lato, lo ringraziava per ,la sua politica di protezione della Chiesa e della sua persona, dall'altro esprimeva profonda avversione e contrarietà per «certi stolti italianissimi», indicando con questa espressione Cavour e i sostenitori del suo progetto politico. Dopo che il Segretario di Stato, card. Antonelli, informò il Papa sul reale contenuto della proposta imperiale, che consisteva nella costituzione nelle Legazioni di un viceregno unito a Roma soltanto formalmente ma sostanzialmente sottoposto alle dipendenze del Piemonte Pio IX cambiò parere, sostituendo la prima lettera con un'altra nella quale, con tono freddo e generico, si limitava a dire che il Papa avrebbe esaminato la proposta imperiale soltanto quando fosse stato restaurato l'ordine nell'Italia centrale. Secondo il p. Giacomo Martina, tale decisione, sebbene fosse influenzata dal card. Antonelli e dalla commissione cardinalizia incaricata di studiare la questione, rispecchiava soprattutto la mente del Papa, il quale era molto preoccupato delle radicali misure di laicizzazione adottate dal Governo piemontese, e che esso avrebbe certamente esteso, come di fatto avvenne, ai piccoli Stati dell'Italia centrale che cacciati i loro sovrani legittimi - o avendo impedito loro di ritornare -, già chiedevano attraverso improvvisati plebisciti l'annessione al Piemonte (Il 10 novembre 1859 fu firmato il trattato di Zurigo, che cedeva la Lombardia al Piemonte e modo volutamente ambiguo prevedeva il ritorno degli antichi sovrani nei loro Stati: cosa che non si realizzò sia per la ferma opposizione dei liberali, che avevano preso in mano le redini del potere, sia per l'audace politica piemontese, ormai orientata verso la politica di annessione degli Stati confinanti. Di fatto 1'11 e il 12 marzo 1860 si svolsero in Emilia, in Toscana, a Parma e Piacenza, i plebisciti per l'annessione al Regno dei Savoia, e il 2 aprile veniva inaugurato il nuovo Parlamento del Regno dell'Italia settentrionale e centrale).
Il progetto, patrocinato dalla Francia, di un congresso europeo da tenersi alla fine del 1859, che trattasse la questione italiana, fu accolto dal Papa con grande interesse; egli sperava che in esso le nazioni cattoliche si sarebbero adoperate a porre fine allo «scompiglio» (Tale parola fu utilizzata in un articolo della Civiltà Cattolica che nella primavera del 1861 esaminava la situazione italiana. Cfr «Lo scompiglio d'Italia», in Civ. Catt., serie IV, vol. 10, 1861, 160-178) avvenuto in quell'anno in varie regioni dell'Italia centrale e soprattutto a restituire alla Chiesa i suoi antichi possedimenti. L'imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe, promise il suo pieno appoggio alla causa papale, mentre l'Imperatore dei francesi consigliò a Pio IX di rinunciare alle Legazioni. Soltanto così, egli scriveva, sarebbe stato possibile la conservazione dello Stato della Chiesa, che in ogni caso andava informato e modernizzato nelle sue strutture amministrative. In quello stesso periodo fu pubblicato a Parigi l'opuscolo anonimo Le Pape et le Congrès, redatto dal consigliere di Stato de la Guéronnière su richiesta di Napoleone III, che proponeva al Papa di restringere il potere temporale alla città di Roma e ai territori limitrofi. Il libretto era una sorta di ballon d'essai lanciato dalla Francia prima che iniziasse il Congresso di Parigi, in modo da mettere in chiaro le linee guida delle successive discussioni. Il cardinale Antonelli, che già si stava preparando a partecipare al congresso, decise di non andare e soprattutto fece sapere che il Papa non intendeva iniziare alcuna trattativa di carattere territoriale sulla base di tali presupposti. Pio IX, il 10 gennaio 1860, ricevendo in udienza gli ufficiali francesi di stanza a Roma, denunciò tale progetto come «un monumento insigne d'ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni» (Una nuova missione promossa da Napoleone III e dal re di Sardegna fu inviata a Roma nel febbraio 1860. Il cappellano di Vittorio Emanuele, l'abate Stellardi, fu incaricato di proporre ancora una volta al Papa di consentire che venisse formata una sorta di vicariato comprendente l'Emilia, la Romagna, le Marche e l'Umbria, sotto la formale sovranità del Pontefice e l'effettiva amministrazione piemontese. Sebbene alcuni vescovi del Piemonte chiedessero a Pio IX di accettare la richiesta, il Papa rifiutò il progetto e dichiarò l'imprescrittibilità e l'indisponibilità del diritti dello Stato della Chiesa. Cfr G. MARTINA, Pio IX..., cit., 102). Pochi mesi dopo tali fatti, il 5 maggio 1860, Garibaldi partiva da Quarto per la Sicilia, con l'assenso (pare soltanto implicito) del re di Sardegna e di Cavour, e la cosiddetta spedizione dei Mille in pochi mesi poneva fine al dominio borbonico sull'Italia meridionale. Ferdinando II (sic. Era Francesco II), salito al trono soltanto da pochi mesi, lasciò Napoli e fu ospitato insieme con la sua corte dal Papa a Roma dove formò un governo in esilio Cavour, da abile politico qual'era, volle immediatamente assicurare al Piemonte i risultati più che incoraggianti (e in qualche modo insperati) della missione garibaldina, estendendo così anche al sud della penisola il moto di unificazione nazionale che era iniziato al nord e che, secondo il suo piano originario, avrebbe dovuto abbracciare soltanto le regioni centro-settentrionali dell'Italia. Cavour ottenne il consenso segreto di Napoleone III, che in questo caso fece il doppio gioco, dando da un lato 1'assenso ai piemontesi all'invasione di buona parte dello Stato della Chiesa e dall'altro promettendo al Papa la sua protezione (A Napoleone III vengono attribuite le parole: «Bonne chance et faites vite!». Di fatto l'imperatore non si oppose al piano d'invasione dei territori pontifici da parte dell'esercito piemontese. Cfr R. ROMEO, Cavour e i suoi tempi, vol. III, Bari, Laterza, 1984,769). Così il Governo piemontese inviò il suo esercito a occupare le Marche e l'Umbria. Di fatto, il 18 settembre il generale Cialdini sconfisse a Castelfidardo, presso Loreto, 1'esercito pontificio, comandato dal generale Lamoricière: lo Stato della Chiesa si ridusse, come aveva auspicato Napoleone III, alla città di Roma e ai suoi territori limitrofi (cioè il viterbese e il frusinate). Sorprende come il cardinale Antonelli, che era un fine e astuto uomo politico, si fosse illuso delle assicurazioni date dal Governo francese circa la difesa del potere temporale. Era chiaro che Napoleone III non avrebbe ostacolato, per motivi sia ideologici - come suo zio Bonaparte, che si era impegnato ad aiutare i popoli in via di emancipazione! - sia squisitamente politici, il progetto piemontese di unificazione nazionale, sebbene questo a partire dal maggio del 1860 si fosse avviato su una strada che non aveva né previsto né voluto; inoltre era anche noto il suo punto di vista sul ruolo che l'Italia unificata avrebbe dovuto avere nel nuovo ordine europeo, che egli auspicava non più monopolizzato dall'Austria, come era avvenuto a partire dal Congresso di Vienna, ma dalla Francia neo-napoleonica e imperiale.
L'unificazione che alla fine si formò, sebbene imprevista e un poco improvvisata - almeno per i modi in cui fu realizzata – fu tenacemente difesa e portata avanti da Cavour e dai suoi sostenitori. L'Italia unificata «in modo artigianale» (A. SCIROCCO, In difesa del Risorgimento, cit., 141 s.) in realtà si fece un poco alla volta; più difficile invece fu fare gli italiani, e soprattutto sanare la frattura che si era creata durante il processo di unificazione tra le due Italie, quella «legale», censitaria e laica, e quella «reale», popolare e cattolica (Cfr F. TRANIELLO, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, cit., 111). In tale contesto di forte scontro ideologico e politico nacque il mito della «nazione autentica», benedetta da Dio, contrapposto all'«Italia dei pochi», dominata dalla massoneria. Di fatto, l'immagine guelfa della nazione (unita cioè dal cemento religioso e dal primato papale) non si era estinta con la nascita dello Stato unitario, anzi in qualche modo ne era uscita rafforzata, sebbene avesse cambiato di segno e di coloritura politica: dall'ambito liberale e costituzionale (basti pensare a Gioberti, Rosmini e Manzoni) si era spostata in quello intransigente e antiunitario. Passò quasi mezzo secolo prima che tali categorie politiche e religiose venissero completamente superate e messe da parte dalla Gerarchia e dalla cultura cattolica. In realtà, fu la tragedia della prima guerra mondiale, con il suo immane carico di sofferenze e di morte, nonché - negli anni dell'immediato dopoguerra - il bisogno di libertà e di una maggiore partecipazione politica e civile ad affratellare gli italiani, facendoli diventare un solo popolo e una sola nazione.



in La Civiltà Cattolica 2010, III, 107-118, quaderno 3842 (17 luglio 2010)

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